Giornata della Memoria - Intervista a Sami Modiano

27.01.2024

di Lucrezia Marini

🕓 7m

Un giorno come altri, avevo otto anni e andai a scuola. L'insegnante mi chiamò e disse: "Sami Modiano, sei espulso dalla scuola." Io non capii, non avevo fatto niente.

Riassunto dell'intervista a Sami Modiano


Vivevo a Rodi, un'isola del Dodecaneso che era governata dall'Italia.

Avevo una splendida famiglia: mio padre Giacobbe, mia madre Diana e poi c'era Lucia, la mia sorella maggiore.

Un giorno come altri, avevo otto anni e andai a scuola. L'insegnante mi chiamò e disse: 

"Sami Modiano, sei espulso dalla scuola."

Io non capii, non avevo fatto niente. Tornai a casa e mio padre mi disse che mi avevano dovuto espellere perché io ero ebreo. Ma continuavo a non capire.

In classe mia c'erano mussulmani, cristiani, ortodossi... Perché hanno dovuto cacciare solo me?

Io sono uguale agli altri. Io sono un essere umano e non sono diverso dagli altri.

Mio padre mi disse che avevo ragione e che avrei capito quando sarei stato più grande.

Ma non fu così.

Nella mia bella isola, le leggi razziali erano eseguite alla perfezione. C'erano centinaia di cose che gli ebrei come me non potevano fare, come ad esempio andare a scuola, possedere una radio, perfino riunirsi in più di cinque ebrei era illegale. Pensavano che complottassimo.

Quelli furono anche gli anni della guerra. 

La guerra è una brutta bestia.

Rodi venne più volte bombardata. Ma ciò che più preoccupava il quartiere ebraico era l'alleanza italo-tedesca. Apparte le leggi razziali, non era ancora accaduto niente di così rilevante per la nostra comunità. Anche quando l'8 Settembre 1943 i tedeschi nazisti occuparono Rodi, la paura iniziale nei confronti dei tedeschi si trasformò ben presto in sollievo. I nazisti non sembravano interessati a quei pochi ebrei che si trovavano sull'isola. Eravamo tutti abbastanza rilassati.

Mia madre era morta due anni prima, di malattia, e nel frattempo mi ero sempre più affezionato alla mia cara sorella Lucia, più grande di me di soli quattro anni.

Ricordo che agli ebrei era stato vietato di lavorare e quello che portava in tavola papà Giacobbe, era veramente poco. Lucia mangiava lentamente e avanzava il cibo dicendo che non aveva più fame e io lo mangiavo al posto suo. Ero piccolo, non capivo perché si comportasse così, ora invece lo so. Lucia per me era diventata come una seconda mamma.

Era il 18 Luglio 1944 i nostri capofamiglia ebrei furono presi dai tedeschi per un controllo.

Era il giorno del mio compleanno e dovevamo festeggiare i miei 14 anni l'indomani appena mio padre fosse tornato. Ma non si vide per tutta la mattina seguente. Neppure gli altri capofamiglia erano ritornati. I nazisti vennero al quartiere ebraico e ci dissero che dovevamo partire perché serviva della manodopera. Dovevamo portare con noi tutti i beni, anche quelli di valore. Ci dissero di chiudere bene a chiave le nostre porte, per illuderci e farci credere che in quelle case potevamo ritornarci in futuro. Ci portarono in una caserma dove riabbracciammo nostro padre e ci fermammo lì dal 19 al 23 Luglio, giorno in cui i tedeschi fecero suonare un allarme per far preoccupare la popolazione di Rodi e non fargli notare la partenza di migliaia di ebrei. Ci presero tutti i nostri beni di valore e ci dissero di andare nelle stive che prima di noi avevano ospitato del bestiame, perché c'erano ancora escrementi e urina di animali.

C'erano anche cinque secchi d'acqua e un bidone vuoto.

Insieme a noi c'era anche una signora che conoscevamo, stava male e mio padre, come altri, anche se non beveva da giorni gli cedette l'acqua. Quando la donna anziana morì chiedemmo ai tedeschi cosa fare:

"Semplice. Buttatela in mare."

Mi si accapponò la pelle, per fortuna mamma era già morta ed aveva avuto una degna sepoltura.

Dopo aver finito il viaggio in mare ci siamo trovati buttati nei vagoni di un treno, dove ogni vagone accoglieva circa settanta persone, ma i tedeschi avevano fatto male i conti e quindi i vagoni dovettero ospitare una novantina di persone.

Sotto il sole di agosto il treno andò lento e si fermò per dare la precedenza ai treni di guerra. Si moriva di caldo! Fu durante questo viaggio che vidi il primo uomo ucciso dai nazisti. Quando il "Treno della Morte" ci portò ad Auschwitz vedemmo filo spinato, baracche in lontananza e silenzio... Ma solo per poco.

Dopo il nostro arrivo ci trovammo davanti un centinaio di soldati nazisti arrabbiati.

Cominciava così la "Rampa della Morte".

Subito fummo divisi in maschi e femmine. Mio padre non voleva staccarsi da mia sorella e quindi un soldato lo fece obbedire a suon di botte.

L'hanno massacrato.

L'80% di noi, finì nelle camere a gas.

Lo scoprii la sera vedendo del fumo. Mi dissero che era lì che ormai si trovavano le loro anime.

Ad Auschwitz non c'erano solo ebrei, c'erano anche omosessuali, prigionieri politici che erano scomodi, disabili e bambini su cui facevano esperimenti.

Appena arrivati, andammo nella sauna, ci rasarono a zero, ci fecero indossare un pigiama e un cappello a righe e poi degli zoccoli di legno. Infine ci impressero sulla pelle un numero. C'era solo un numero di differenza tra me e mio padre. Ma io mi salvai. Lui dopo 45 giorni morì, mia sorella probabilmente visse solo 30 giorni. Li conobbi troppo poco.

Un giorno scivolai in una buca mentre stavo caricando della legna in un bosco. Avevo l'acqua ghiacciata fino alle caviglie. Uno dei miei compagni mi aiutò ad uscire e il tedesco che ci stava vicino ci puntò la pistola contro. Ci risparmiò perché servivamo per trasportare il carro della legna.

Un'altra volta, sempre in quel "cimitero di innocenti", mi nascosi da un soldato tedesco nelle lastrine: aspettavo il colpo di grazia. Un polacco che si occupava delle latrine mi vide , mi butto in mezzo agli escrementi e così mi salvò.

Volevo veramente farla finita.

Era meglio essere uccisi, piuttosto che vivere un altro giorno in quell'inferno. In quella Fabbrica della Morte.

Molte volte rischiai di morire, ma il caso mi salvò.

Una volta ero stato selezionato per andare nelle camere a gas. Era appena arrivato un carico di patate e, dato che non c'era abbastanza personale, un ufficiale mi chiamò per aiutarlo. Poi, quando ebbi finito, mi portò in un altro lager, diverso da quello che avevo lasciato.

Lì incontrai un amico, un fratello, Piero Terracina. E' grazie a lui se adesso sono qui e testimonio quello che mi è successo. Fu per fare un piacere a lui che cominciai a testimoniare nel 2005 e adesso so che non mi fermerò mai.

Questi occhi hanno visto cose orrende, degne di essere raccontate affinché non accadano mai più.

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